LA CONFRATERNITA DEI CARRELLANTI (8)

Passione e compassione (ma poi c’è il match-play)

Come non assistere nella ricerca un compagno che scempia improvvisamente un tee shot nel rough più profondo? Dal ritrovamento di quella pallina può dipendere tutto, per il malcapitato

Di Massimo De Luca

Compassione. Una parola dolce, che esprime la disponibilità a immedesimarsi nell’altro, a condividerne le sofferenze. E siccome un campo da golf è luogo sì di svago e divertimento (qualche volta) ma anche teatro di frustrazione e, appunto, sofferenza, quella parola vi trova cittadinanza e quasi un habitat naturale.

La compassione da tee a green può esprimersi in molti modi, perché ognuno ha i suoi guai e istintivamente vede il riflesso di sé stesso nei momenti di difficoltà dell’altro, a patto che disponga di un minimo di sensibilità. Il gioco, per noi Carrellanti, è un’entità misteriosa: può palesarsi a sorpresa (magari dopo aver fatto un pessimo riscaldamento in campo pratica) e altrettanto sorprendentemente eclissarsi nel giro di un paio di buche. O, per contrasto, finire nel buco nero di un black-out a smentire un secchio di palline impeccabilmente scagliate in driving range. Ma è proprio questa comune fragilità a innescare negli animi sensibili il nobile sentimento della compassione. Come non assistere nella ricerca un compagno che, in score a più di metà strada grazie a una buona regolarità di gioco, scempia improvvisamente un tee shot nel rough più profondo? Dal ritrovamento di quella pallina può dipendere tutto, per il malcapitato: risultato, classifica, fiducia e quindi umore per più di qualche giorno. Adoperarsi nello scandagliamento, lasciandosi trafiggere le calze da spine e forasacchi e restituirgli il sorriso ritrovando la sfera fuggitiva magari anche giocabile, è appunto espressione di pura compassione, di condivisione e, soprattutto, alleviamento della sofferenza. Con tutto il rispetto, quasi esercizio di una virtù evangelica (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Potremmo catalogare questa tipologia di solidarietà come “compassione attiva”, che traduce in opere il senso di comunanza.

Ci sono frangenti però in cui la compassione nulla può. Se uno butta una palla in acqua, più che qualche parola di conforto non si può spendere. Si può aggiungere un incoraggiamento a non mollare, a recuperare con approccio e putt, ma nulla di più. E questa potrebbe essere definita “compassione passiva” ché a nulla servirebbe nemmeno una missione subacquea di recupero.

Ora però non vorrei sconfinare nel buonismo. Il Carrellante-tipo è, mediamente, una brava persona: disposta a condividere le sofferenze dell’altro augurandosi di potersi giovare della reciprocità, quando nei guai sarà stato lui a finirci (tanto prima o poi capita). Ma c’è una soglia sulla quale generalmente si arresta la disponibilità a compatire. Quella soglia si chiama “Match- play”. Qui la solidarietà e la vicinanza ai problemi dell’altro rischiano di infrangersi o, quanto meno, vengono messe a dura prova. Se trovare la pallina dell’avversario nell’erba alta significa restituirgli la possibilità di aggiudicarsi una buca, magari anche decisiva, è possibile che la ricerca della smarrita avvenga con minor accuratezza e l’eventuale ritrovamento venga accolto con un sorriso sforzato (diciamolo: finto). Perché nel match- play l’avversario principale non è più il campo, ma quello che, fino a quel momento, ti ha martellato di approcci e putt vanificando i tuoi tentativi di passare in vantaggio. E se non trova quella pallina, stavolta non ce la farà a vincere o anche solo a pareggiare la buca.

C’è infine una terza forma di compassione, un po’ pelosa, come usa dire. Questa si manifesta, davanti alla tv o dietro le corde di un torneo professionistico, ed è catalogabile come “compassione compiaciuta”. Scatta, accompagnata da una sensazione di sollievo, quando un giocatore sbaglia clamorosamente un colpo, pur trovandosi in condizioni ideali. Se è un campione fra i primi del mondo, meglio. Uno shank, una flappa, un putt cortissimo sbagliato provocano nel Carrellante spettatore una reazione a due facce. Da un lato, il disappunto (un errore non è mai un bello spettacolo) e fin qui siamo ancora nella compassione. Ma conseguente, e ben più intenso, è il senso di compiacimento. Se anche loro combinano cose così – è il ragionamento – siamo tutti sdoganati, tutto è perdonato, perfino le peggiori nefandezze golfistiche. E in questo caso, purtroppo, l’aspetto consolatorio del compiacimento prevale sulla vera compassione come condivisione di sofferenza.

Non è bello, ma è così. Ed è pur vero che, in quanto membri di una Confraternita, dovremmo essere capaci di tenere a bada gli impulsi dell’istinto. Ma insomma siamo, in fondo, esseri umani con le loro debolezze. Un minimo d’indulgenza ci va riconosciuta. Non plenaria, però.

Illustrazione di Lorenzo Duina