Anime rassegnate nel labirinto dell’handicap
Ognuno, col suo nuovo aggravio di colpi, è rimasto intimamente convinto di valere molto più del nuovo identikit di gioco partorito dal computer. Eppure è solo un’operazione-verità
Di Massimo De Luca


Anime rassegnate si aggirano, da qualche tempo, per le club house e per i campi pratica. Da sempre la club house è stato un luogo di bugie e il campo pratica un luogo di lamentazioni. Nelle club house la verità è un oggetto sconosciuto. C’è sempre chi la racconta e se la racconta a modo suo. A tendere l’orecchio, fra una birra e un sandwich, si scopre puntualmente che quasi tutti, tranne i pochi saggi silenti, avrebbero quel giorno realizzato uno score eccellente se solo la sfortuna non si fosse accanita sotto varie forme: putt sbordati, alberi-killer e quel lago vorace non superato per pochi centimetri. Per non dire dei tre putt, sempre archiviati come una beffa del destino (per definizione cinico e baro) e non per la banale conseguenza di errori di valutazione.
I campi pratica somigliano, invece, a una versione golfistica del Muro del Pianto. Come in un girone dantesco, qui riecheggiano solo lamenti. Se un “dannato X” non vede decollare la pallina secondo desideri e speranze, imprecherà alla propria incapacità e alla ripetitività dei soliti errori; se un “dannato Y” tirerà colpi finalmente corretti, imprecherà invece al fatto che mai, mai e poi ancora mai, traiettorie del genere gli riescono veramente sul campo. In un caso e nell’altro, sempre a lamentazioni finisce.
E le anime rassegnate? Calma, ci arriviamo. In questo panorama tradizionalmente venato dal rimpianto, si è inserita nei primi mesi di questo anno una variante. Non la variante indiana e nemmeno quella brasiliana che ci cordogliano ogni giorno nei bollettini epidemiologici. No, la nostra variante, per la quale non sembrano esistere vaccini, consiste nell’entrata in vigore del nuovo sistema di gestione dell’handicap. Che ha inferto – non a tutti ma a molti (quorum ego, ahimé) – la mazzata di un robusto innalzamento. Chi, nel pandemico 2020, aveva avuto meno occasioni di giocare e in più le aveva sfruttate male, frenato dai postumi del lockdown, si è ritrovato così un poco gradito “ristoro” in termini di colpi. Anni di fatiche per evitare una virgola o inseguire il miraggio di un abbassamento vanificati d’ufficio da una bocciatura scoperta nel tempo di un clic al computer. Una botta all’autostima che nemmeno un insuccesso professionale potrebbe pareggiare.
Molti Carrellanti si sono improvvisamente sentiti degradati e trascinati in basso, verso categorie abbandonate da tempo. Una sensazione poco piacevole, diciamolo. A poco è servita la costatazione che quell’handicap gonfiato non era che la risultante aritmetica di una media degli score e, dunque, più aderente alla realtà rispetto al passato. Ognuno, col suo nuovo aggravio di colpi, è rimasto intimamente convinto di valere molto più del nuovo identikit di gioco partorito dal computer. In fondo si tratta di una banale operazione-verità, perché l’aritmetica avrà pure dei difetti ma di certo non mente. E la media dei passati score (i migliori, oltretutto) non fa che fotografare l’effettivo livello di gioco. Ma la verità, in tutti i campi (e non parlo solo di quelli da gioco) è un qualcosa con cui è difficile accettare di fare i conti (“La verità mi fa male, lo sai”, cit. Caterina Caselli, 1966, Opera Omnia).
Già, ma perché tutto questo sprofonderebbe le anime dei Carrellanti nella rassegnazione? Perché, passata la prima euforia del “tutto sommato, avendo più colpi mi sarà facile tornare ad abbassare l’handicap”, sono arrivati i General Play, poi le prime gare vere e con esse il dramma. Anime vaganti per il driving range si chiedono, in soliloquio, come sia possibile che, avendo consegnato uno score di 36 punti si siano visti affibbiare un ulteriore innalzamento di due decimali; oppure, avendo trionfalmente firmato un 41, abbiano incassato un minuscolo abbassamento, quando un anno fa si sarebbero garantiti un sostanzioso lifting del fatidico numerino.
Purtroppo è ancora colpa di questa benedetta aritmetica, che si ostina a ragionare solo con i numeri. Per cui se, poniamo, si scarta un risultato discreto ottenuto nel 2020 quando l’handicap, prima della cura, era sensibilmente più basso, non può bastare un 36 per salvarsi dal castigo. Perché un 34 ottenuto giocando 18 un anno fa vale più di un 36 o 37 registrato oggi con un handicap 22, per fare un esempio. Ergo, non c’è più certezza, nemmeno quando si riesce a stare sotto l’attuale handicap. E ne consegue che migliorare subito quell’handicap ricevuto in dono fra Natale e Capodanno sia diventato difficilissimo.
Per normalizzare la situazione, occorrerà mettere a referto un buon numero di risultati ottenuti nella nuova situazione. Allora sì che anche giocando semplicemente un poco meglio del proprio handicap “ristrutturato” si potrà cominciare la risalita (o la discesa verso un handicap più gratificante). Ma il Carrellante non è per natura ottimista, poco fidando nella propria capacità di dare continuità ai risultati. Da qui, lo sconforto. Da qui, la rassegnazione. E la sensazione che sarà dura, molto dura, tornare a riveder le stelle.
Illustrazione di Lorenzo Duina