Come non odiare chi ti distrugge un alibi?
La primavera trascorsa ai domiciliari almeno un pregio l’aveva avuto. Consegnarci, ben infiocchettato, un alibi d’acciaio per gli errori in campo. La cosa è andata avanti per un pezzo. Fino a quando qualcuno…
di Massimo De Luca


Quanto abbia inciso la pandemia sulla stagione dei professionisti è sotto gli occhi di tutti. Tornei cancellati, Ryder Cup slittata al 2021 (e Roma al ’23), altri slittamenti tutti da verificare (vedi Masters di novembre, che è al momento un colossale punto interrogativo, data la crescente diffusione del Covid negli Stati Uniti), Tour europeo ai minimi. Meno facile è stabilire quanto lo stramaledetto virus abbia inciso sulla nostra, di stagione. Che non metterà in palio milioni di dollari, ma mette in gioco qualcosa che, spesso, assume per ognuno di noi un valore enorme: l’autostima.
In principio il Covid ha rappresentato un gran bell’alibi, piatto di cui il Carrellante è notoriamente ghiotto. Per volare servono le ali, che sul campo sono rappresentate da una ragionevole dose di precisione, una certa ripetitività nello swing, una buona sensibilità sul putt. In mancanza di ali, e dunque a fronte di un risultato deludente, si cerca una qualche consolazione, per la quale occorrono alibi. Alibi di ogni genere: il vento o l’afa, il caldo o il freddo, il campo secco o il campo pesante, poca sabbia nei bunker o troppa sabbia nei bunker, i green veloci o i green lenti.
Come si vede, tutto e il contrario di tutto: non si è capito quali dovrebbero essere le condizioni ideali per consentirci la realizzazione di uno score soddisfacente. Forse servirebbe un campo senza rough e senza bunker, senza laghi e con i green a imbuto (quelli che, nei sogni, recapitano ogni approccio in bandiera se non direttamente in buca). Se esistesse, e sottolineo “se”, non si avvertirebbe così forte il bisogno di alibi. Ma non risultandone nemmeno uno agli annali, la ricerca di autoconsolazione rimane un’esigenza primaria.
Da questo punto di vista, la pandemia canaglia almeno un pregio l’aveva avuto. Consegnarci, ben infiocchettato, un alibi d’acciaio valido per tutti. La cosa è andata avanti per un pezzo, poi, come sempre accade, c’è chi scatta e chi resta al palo. I problemi, per l’autostima, arrivano quando a scattare – scrollandosi di dosso le scorie della quarantena (o settantena o novantena, in realtà) – è un compagno di gioco che conosci, che se la cava più o meno come te ma che, all’improvviso, comincia a giocare bene, addirittura meglio di prima. Cioè, di prima della reclusione forzata. Quindi l’alibi non c’è più: se lui riesce a giocar bene, perché io no? Perché io continuo a nascondermi dietro scuse non più plausibili di inattività molesta?
Antonio Salieri, che pure era un grande musicista, sbalordiva davanti agli spartiti che gli cacciava sotto gli occhi il giovane Mozart: perché con quelle stesse sette note a disposizione di tutti, creava sinfonie monumentali. E pare che il pur grande musicista, Maestro di Cappella alla Corte degli Asburgo (e su quel Maestro di cappella molti di noi Carrellanti potrebbero ritrovarsi…) si chiedesse: «Perché io che sono anche più grande e saggio di questo moccioso scapocchione di Amadeus che dissipa il suo talento nelle notti brave di Vienna, non riesco a comporre una musica così?». Si dice, ma siamo ai confini della leggenda nera, che ossessionato dall’invidia, Salieri abbia, per così dire, accelerato la prematura dipartita del genio di Salisburgo. Molto probabilmente non è vero, anche se Milos Forman ci ha costruito su un magistrale film come “Amadeus”.
Quanto a me, uscendo dalla digressione musicale, so per certo che quel compagno di gioco – che con il mio stesso numero di bastoni, sullo stesso campo, nelle stesse condizioni e, addirittura, con un handicap un po’ più alto (e perfino un’età leggermente più avanzata) infilava sotto i miei occhi par e birdie fino a portarsi a casa uno score sontuoso – mi suscitava istinti perversi. Aveva demolito il mio alibi perfetto, trasformando la quarantena in una quarantata di punti.
Grande è stata la tentazione di rifilargli una bastonata a tradimento (senza esagerare come avrebbe fatto, secondo la leggenda, il povero Salieri). Invece, a denti stretti, ho sorriso e mi sono complimentato a ogni piccolo exploit che metteva a segno buca dopo buca, recuperando anche situazioni disperate. Ma dentro, ero puro magma vulcanico sul punto di tracimare. Perché, in realtà, non c’è peggior frustrazione che vedere un giocatore di handicap più alto fare meglio di te anche sul lordo. E soprattutto constatare che la quarantena non era stata uguale per tutti. Lui se l’era ampiamente messa alle spalle. Io no.
Quell’Amadeus dei poveri aveva messo a nudo tutta la pochezza del mio gioco post-Covid (che poi era molto simile a quello pre-Covid). E perciò: come non odiare chi ti distrugge un alibi dentro il quale te ne stavi al riparo? Diciamolo: un colpettino su una caviglia ci stava. Ma non c’è stato, ovviamente. Le sue caviglie, integre, lo hanno condotto alla doccia dei giusti e alla meritata premiazione. Il mio fegato, invece, ha avuto bisogno di un passaggio in farmacia.
Illustrazioni di Lorenzo Duina